L’ape Giovannina

Giovannina adora giocare ad essere un’ape.
E’ una bambina che sfugge, ma se vuoi tirarle fuori le parole più sincere, puoi andare a parlarle mentre gioca tra i fiori, mimetizzandoti con lei nel campo che c’è dietro casa sua.
A Giovannina il sapore del miele risulta stomachevole, ma se le ricordi chi lo produce, lei lo manda giù con la soddisfazione di un capitano d’industria che assapora il frutto del lavoro dei propri operai.

All’inizio la madre era molto preoccupata di questa pericolosa attrazione della figlia per le api; temeva infatti che si potesse spingere fino a cercare gli alveari, finendo per essere punta da uno sciame inferocito. E invece Giovannina è sempre riuscita a fare i movimenti giusti e a farsi tollerare – con le sue storie – dalle api tra quei fiori.

Questo gioco bellissimo si è però svolto solo dalla primavera all’estate del 1918.
Un giorno poi a casa di Giovannina è arrivato l’inverno ed è durato per sempre.

Da quella stagione, la bambina ha atteso l’arrivo delle api da una finestra che i genitori hanno provveduto a costellare di fiori. Non è come sdraiarsi nel campo – certo- ma è comunque l’unica cosa che riesca a strappare un sorriso agli occhi di Giovannina. Quegli occhi dolci come il miele, ma che riescono a trafiggerti come un pungiglione avvelenato di tristezza.

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Io, il vulcano e il cimitero (Islanda 6°giorno)

Una persona parte per un viaggio con delle aspettative e durante il percorso queste possono poi modificarsi, spostarsi altrove, ridimensionarsi. Ma una certezza rimane lì intatta: la responsabilità della chiosa finale che pende sulle spalle dell’ultimo giorno di viaggio. E questo mio ultimo giorno di viaggio, è durato 35 ore.
Apro gli occhi e li trovo pieni di paesaggi in cui vorrei vivere lentamente.

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Le tombe magiche della Contea di Mezzo (Newgrange 14°giorno)

Mi sveglio e, per la prima volta in questo viaggio, un’altra persona dormiva nella mia stanza. Avevo preparato i vestiti la sera prima, in modo tale da non fare troppo rumore, né aver bisogno di accendere la luce. Un raggio di sole filtrava dalla fessura della tenda e così in cinque minuti mi sono preparata. Ci sono persone che si conoscono da una vita ma che mai ti capiterà di vedere in pigiama o di osservarne le abitudini prima di addormentarsi; al contrario, l’ostello ti consente di abbattere facilmente dei muri e fa si che alcuni tabù sociali vengano come “congelati” per il tempo in cui vi rimani alloggiato. E così puoi trovarti a conoscere una ragazza, berci un bicchiere di vino insieme, dormire nella sua stessa stanza, salutandola prima di addormentarti con la consapevolezza che probabilmente non la rivedrai mai più. Addio Cisca.
Esci dall’ostello e ad attenderti, a un metro da te, c’è un chiaro messaggio in codice della tua cara Jessica. Ti ha trovata e vuole che tu lo sappia.

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Giannina dorme.

Giannina dorme alla Certosa su di una poltrona che potrebbe essere la mia.
Una poltrona per me così bella che prima mi sono accorta della poltrona e poi di Giannina.

Giannina dorme o forse è solo immobile e fissa il vuoto con gli occhi socchiusi.
Lo fissa mentre si sta chiedendo il perché del suo trovarsi lì, in quel cortile, da più di duecento anni. Tutti gli altri sono in piedi o sdraiati, mentre lei è l’unica seduta.

Lei, con quel diminutivo datole probabilmente per le sue sembianze di bambina.
Lei, le cui vesti lasciano immaginare una cura molto sviluppata per i dettagli.
La sua poltrona, che con i particolari dei suoi abiti, crea un tutt’uno armonico e allo stesso tempo commovente. I fiocchi. I colletti. La copertina traforata.

Quando l’ho vista io – Giannina – aveva un fiore appoggiato al petto.
Un fiore oramai appassito, ma così personale che ha tolto il coraggio di sostituirlo.
I suoi occhi fissavano il vuoto, la sua testa era altrove, ma il suo ventre sembrava ancora fertile.
Le mani di Giannina infatti formavano una conca e il suo ventre si era riempito d’acqua piovana.

In quel momento, davanti a me, la pietra è divenuta carne.
Giannina è diventata tante cose.
Io continuavo a pensarla carne.
Probabilmente un pensiero contrario a quello di chi ha voluto trasformare quella carne in pietra.
Di chi ha provato un dolore e una compassione sconfinata,
tale da non sentirsela nemmeno di chiedere alla povera Giannina, come ultimo gesto, di scendere dalla sua adorata poltrona.

Io ero come in piedi di fianco a suo padre e mi è venuto spontaneo tenerle la mano.
Entrambi commossi. Entrambi addolorati e disorientati.
Io che volevo chiederle di raccontarmi altro.
Lui che voleva ricordarla esattamente così.

Ho conosciuto Giannina poco tempo fa e con il suo sguardo perso nel vuoto mi ha trafitta a morte. Così sento il bisogno di tornare da lei, come un richiamo, perché ai suoi piedi ho perso un pezzetto di cuore. Quello che riesci a sacrificare solo davanti a uno sconosciuto.
Perché forse non appartiene nemmeno a te stesso.
La pietà verso gli sconfitti dalla sorte. La pietà verso se stessi.

Foto di Anna Katarzyna

Foto di Anna Katarzyna

Avrei voluto però salutare Elizabeth. Immagini dall’Highgate Cemetery

C’è un altro motivo che ti ha spinto all’Highgate Cemetery, oltre ovviamente alla ossessione delle donne della tua famiglia per la visita ai cimiteri, già raccontata in un post precedente.

C’era una persona, una donna, che avresti tanto voluto salutare. Lei è Elizabeth Siddal e ogni notte, sotto le sembianze di Ophelia, ti dorme accanto in un quadro. Elizabeth non è stata solo moglie di Dante Gabriele Rossetti e modella preferita dei Pre-Raffaelliti; è stata anche poetessa malinconica e pittrice.

E per questo suo impegno volevi ringraziarla.

Anche per quello mi trovavo lì.

A causa della posa per questo quadro avvenuta in una vasca da bagno, Elizabeth si ammalò gravemente ai bronchi.

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Cosa non mi faccio mai mancare in viaggio?

casa-barbieLe famiglie si contraddistinguono per mille peculiarità. “Nessuna è uguale all’altra”, “tutte sono uguali se vai nel dettaglio dei problemi”, “nessuna è perfetta”, “proprio quelle che sembrano perfette sono in realtà le peggiori”, e se chiedi alla signora appena incontrata sulla panchina della fermata del bus avrai un’altra risposta simile, ma io da piccola non lo sapevo. Io ho fatto l’asilo dalle suore, la colonia estiva dalle suore e, visto che mia mamma appartiene alla scuola di pensiero del squadra che vince non si cambia, nel caso in cui mi fosse sfuggito qualche concetto, pure le elementari le ho dovute fare dalle suore! Non so se è stata l’educazione cattolica, ma io le famiglie dei miei amici le dividevo in due categorie: chi aveva delle tradizioni di famiglia e chi invece non le aveva. Io, ovviamente, facevo parte della seconda. Esisteva la sotto-categoria di chi aveva la casa (di città o di campagna) di Barbie e chi no, ma valeva solo per le femmine, quindi non conta. Continua a leggere