L’ape Giovannina

Giovannina adora giocare ad essere un’ape.
E’ una bambina che sfugge, ma se vuoi tirarle fuori le parole più sincere, puoi andare a parlarle mentre gioca tra i fiori, mimetizzandoti con lei nel campo che c’è dietro casa sua.
A Giovannina il sapore del miele risulta stomachevole, ma se le ricordi chi lo produce, lei lo manda giù con la soddisfazione di un capitano d’industria che assapora il frutto del lavoro dei propri operai.

All’inizio la madre era molto preoccupata di questa pericolosa attrazione della figlia per le api; temeva infatti che si potesse spingere fino a cercare gli alveari, finendo per essere punta da uno sciame inferocito. E invece Giovannina è sempre riuscita a fare i movimenti giusti e a farsi tollerare – con le sue storie – dalle api tra quei fiori.

Questo gioco bellissimo si è però svolto solo dalla primavera all’estate del 1918.
Un giorno poi a casa di Giovannina è arrivato l’inverno ed è durato per sempre.

Da quella stagione, la bambina ha atteso l’arrivo delle api da una finestra che i genitori hanno provveduto a costellare di fiori. Non è come sdraiarsi nel campo – certo- ma è comunque l’unica cosa che riesca a strappare un sorriso agli occhi di Giovannina. Quegli occhi dolci come il miele, ma che riescono a trafiggerti come un pungiglione avvelenato di tristezza.

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Giannina dorme.

Giannina dorme alla Certosa su di una poltrona che potrebbe essere la mia.
Una poltrona per me così bella che prima mi sono accorta della poltrona e poi di Giannina.

Giannina dorme o forse è solo immobile e fissa il vuoto con gli occhi socchiusi.
Lo fissa mentre si sta chiedendo il perché del suo trovarsi lì, in quel cortile, da più di duecento anni. Tutti gli altri sono in piedi o sdraiati, mentre lei è l’unica seduta.

Lei, con quel diminutivo datole probabilmente per le sue sembianze di bambina.
Lei, le cui vesti lasciano immaginare una cura molto sviluppata per i dettagli.
La sua poltrona, che con i particolari dei suoi abiti, crea un tutt’uno armonico e allo stesso tempo commovente. I fiocchi. I colletti. La copertina traforata.

Quando l’ho vista io – Giannina – aveva un fiore appoggiato al petto.
Un fiore oramai appassito, ma così personale che ha tolto il coraggio di sostituirlo.
I suoi occhi fissavano il vuoto, la sua testa era altrove, ma il suo ventre sembrava ancora fertile.
Le mani di Giannina infatti formavano una conca e il suo ventre si era riempito d’acqua piovana.

In quel momento, davanti a me, la pietra è divenuta carne.
Giannina è diventata tante cose.
Io continuavo a pensarla carne.
Probabilmente un pensiero contrario a quello di chi ha voluto trasformare quella carne in pietra.
Di chi ha provato un dolore e una compassione sconfinata,
tale da non sentirsela nemmeno di chiedere alla povera Giannina, come ultimo gesto, di scendere dalla sua adorata poltrona.

Io ero come in piedi di fianco a suo padre e mi è venuto spontaneo tenerle la mano.
Entrambi commossi. Entrambi addolorati e disorientati.
Io che volevo chiederle di raccontarmi altro.
Lui che voleva ricordarla esattamente così.

Ho conosciuto Giannina poco tempo fa e con il suo sguardo perso nel vuoto mi ha trafitta a morte. Così sento il bisogno di tornare da lei, come un richiamo, perché ai suoi piedi ho perso un pezzetto di cuore. Quello che riesci a sacrificare solo davanti a uno sconosciuto.
Perché forse non appartiene nemmeno a te stesso.
La pietà verso gli sconfitti dalla sorte. La pietà verso se stessi.

Foto di Anna Katarzyna

Foto di Anna Katarzyna

Andavo ai cento all’ora…


Ore 10, Bologna, via del Pratello.
Anche oggi hai viaggiato. Ma è stato un viaggio breve.
I tuoi 400 passi contro i loro 20 KM.
La tua immutata voglia di saccottino al cioccolato, contro il loro esistenziale bisogno di vincere o di esserci.  Continua a leggere