Sei al tuo ultimo giorno di mare in Grecia. E ciò non significa solo che sei sopravvissuta a te e a 10 giorni di mare consecutivi, ma anche che sei alla tua ultima giornata di immersioni.
Sei al tuo ultimo giorno di spiaggia, in coppia, sotto il sole di agosto, per cui ha ragione mia nonna quando dice che non si sopravvive solo alla morte.
L’ultima giornata intera. L’ultima opportunità di affrontare la tua paura regina. La number one.
Quella che non c’è una volta che non la incontri anche quando, spavalda, vuoi far finta che non sia lì a burlarsi di te. Perché lei, anche se tecnicamente dovrei dire lui, è la paura che ti ha impedito di goderti un’estate della tua romagnola fanciullezza limitandoti nell’immergerti in mare fino a oltre la caviglia.
Per tre lunghi mesi. Che a sette anni contano molto di più, un po’ come per i cani. E’ quella che quando eri costretta per questo a dare spiegazioni e a sorbirti le canzonature che ne seguivano -purtroppo non sei mai stata brava a dire le famose bugie a fin di bene- lei ti fissava con il suo ghigno, impassibile.
Adesso sei all’ennesima resa dei conti.
Le battaglie dei nove giorni precedenti le hai tutte perse.
Lei è stata abile a presentarsi nella stessa maniera sistematicamente, con lo stesso movimento. L’unico che riesce ogni volta a compiere, con la variante che a volte le riesce di farlo a rallentatore.
E questo, maledetta, è il suo punto di forza. Quello di essere sempre uguale a se stessa.
Come un dogma.
Con quell’immagine lei esercita su di me il suo potere temporale e più la gente intorno cambia e si alterna, più lei rimane la stessa, come se il suo potere su di me fosse più certo di un amore o di un’amicizia. E più qualcuno tenta farmi ricredere, tanto più lei mi si presenta davanti, silenziosa nella sua tremenda irrazionalità.
I sassolini sotto i piedi si spostano al passare dell’onda sul bagnasciuga. Regoli il cinturino della maschera. Fai una prova della tenuta della gommina. L’acqua non entra. Il tubo è pulito. Ti passi una manciata d’acqua sulla pancia. Inspiri. Espiri. Inspiri profondamente e dopo aver controllato che nessuno ti guardi -anche se è abitudine universale sei pur sempre una “signora”- passi la saliva sul vetro interno della maschera.
Risciacquo. Inspiri per l’ultima volta con il naso e inserisci la maschera, facendo attenzione a non tirarti i capelli raccolti in una coda.
In un lento tuffo sei sotto. La situazione è molto interessante perché oggi il mare è un poco mosso e i pesci, in veri e propri banchi, si riparano vicino allo scoglio.
Tu stai invece attenta a non andarci troppo vicina alla scogliera per evitare di essere trapassata dai ricci che, a cespugli, punteggiano il fianco della parete.
Ti sei data come obiettivo quello di circumnavigare l’area e quindi di affrontare un pezzetto, seppur breve, di mare “aperto”.
Da questo momento “lei” inizierà ad essere un “lui”.
La tua partenza è buona, il respiro regolare.
Percorri in lunghezza tutta la scogliera e inizi la curva che ti farà attraversare a nuoto il tratto “aperto”.
Dunque i giochi sono fatti. Tornare indietro è alla stessa fatica dell’arrivare a destinazione. Senti la sua presenza. E’ arrivato come ogni volta fa: materializzandosi dal punto più lontano e blu. Sembra sempre disinteressato. Sembra sempre che sia arrivato lì per caso ma tu, sola, sai che invece è stato richiamato dall’odore del tuo terrore.
E’ in arrivo, bianco con la schiena grigia, sinuoso dà la sua tipica stoccata di coda.
A quel punto, come ogni volta, non reggi lo sguardo e ti giri verso riva.
Il respiro dal tubo sembra non sentirsi più. Pensi ai bambini più in là che giocano a palla e ti convinci che nel caso, loro, possano costituire un pasto molto più ghiotto. Riguardo verso il blu e lui torna scattoso nel suo colpo di coda.
Lui, lo squalo, non ti lascia tranquilla nemmeno l’ultimo giorno di vacanza. Questa volta ostenti sicurezza, non ti fai prendere da quella smania di “terra!” che avvampa dentro di te in queste situazioni e continui alla stessa velocità.
Non è finita, non illuderti. Termini gli ultimi dieci metri guardandoti periodicamente indietro, certa della sua presenza.
Ti dici che ce l’hai fatta. Che anche tu puoi dire di aver imparato a “convivere” con le tue fobie. Accenni pure un moto di soddisfazione quando, come una maledizione, trovi davanti a te, la tua paura numero due.
Affilato come una lancia e di color argenteo come una lama, non ha bisogno di muovere la coda per spostarsi.
Ha un becco lungo quanto il resto del suo corpo e la sua vista ricorda una siringa e ti fa risentire piccola, seduta sul letto in attesa della puntura di antibiotico.
E’ la seconda volta che ti trovi davanti a lui.
La prima eri in Thailandia, a Phi Phi Island, e lo avevi confuso per un barracuda e la tua convinzione, avvallata dal conducente della vostra imbarcazione che parlò una sola volta durante l’escursione e fu proprio per dire “yes, barracuda!”, rovinò la vacanza a una coppietta inglese che, da quel giorno, non rimise piede in acqua. Un po’ quello che successe a me dopo la visione de Lo squalo di Spielberg. Maledetto!
Ora quindi avevi di nuovo davanti lui, aveva deciso di cimentarsi nell’infiocinatura di un branco di pesci, o nel loro infastidimento, non riesci ad appurarlo.
Un brivido ti percorre la schiena.
Ti senti soffocare e la smania di andartene ti vibra come una scossa nei polpacci.
Dove oggi non è arrivata la mia proiezione dello squalo, nella realtà è arrivato lui, il temibile pesce trombetta.
Perché a te ancora te lo devono spiegare a che diavolo gli dovrebbe servire a quello un becco a siringa.
Perché in fondo lo sai che tu, l’ignoto, continuerai sempre a riempirlo di mostri.
[Racconto scritto dopo un’immersione a Toroni, Sithonia, Grecia]