Io, la balena e soprattutto il capitano Achab (Islanda 5°giorno)

Apro gli occhi naturalmente. Dormire con le tende spalancate si è rivelata una buona idea per il mio ritmo circadiano. Oggi sono diretta a Husavik, il miglior punto di avvistamento di balene di tutta l’Islanda, e per l’occasione indosso le mie mutande preferite così, in caso di trasporto d’urgenza in ospedale, avrei almeno una cosa di cui andare fiera.
Sì perché ieri sera ho avuto la malaugurata idea di leggere su un forum di TripAdvisor i commenti alla domanda di un folle che cercava informazioni per fare kayak tra le balene. Tra le varie risposte c’era quella di un tizio che, con l’intento di scoraggiarlo, ha postato una serie di video relativi a balene e orche che saltavano beate su kayak e barche, devastandoli. Non capiterà proprio questa volta e non proprio a me, ma nel dubbio le mie mutande preferite hanno il dovere di seguirmi in quest’impresa. Ma andiamo con ordine…

balena su barca

Diciamo che la lettura delle cartine non è mai stato il mio forte. Diciamo che la cartina che stavo utilizzando non dava riscontro delle varie altitudini. Diciamo che questo viaggio l’ho preparato nelle 7 ore di viaggio di andata, in cui nelle ultime 3 ho cercato di dormire. Diciamo che ho cercato di farmi sorprendere il più possibile da questa nazione e quindi diciamo che non mi posso lamentare se le strade islandesi sono riuscite davvero a sorprendermi.


Il tratto di percorso tra Egilsstadir e Husavik consiste in 220 km, quasi 3 ore di viaggio. Dalla cartina però non era chiaro che la maggior parte di queste si sarebbero svolte su una sorta di altopiano. Ovviamente, il nome dell’altopiano lo ignoro, visto che la mia cartina nemmeno lo nominava.


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Ignara di quello che di lì a poco avrei visto, salgo in macchina e accendo il lettore mp3 sintonizzandolo sui Sigur Ros. Non ero una loro fan, io. Avevo ascoltato solamente un loro live e con scarsa attenzione. E così, il mio primo vero ascolto attento l’ho fatto in Islanda, nel luogo in cui quelle canzoni sono nate. E proprio quella musica, sembra dire in altro modo quello che i miei occhi vedono. Un’esperienza di ascolto molto intima ed intensa, in quegli spazi che sembrano infiniti e in quel tempo di viaggio dilatato. Con il ghiaccio che custodisce il fuoco o che forse lo nasconde. Con gli odori forti che provengono da sottoterra e i profumi intensi delle erbe officinali. Con quella sensazione di precarietà che ti accompagna per tutta l’esplorazione, che non capisci dove termini la sua e inizi la tua. Come fosse un unico magma. E sono molto grata a Valerio, amico caro e viaggiatore attento, per essere riuscito la notte prima della partenza a spedirmi in tempo quelle canzoni. La colonna sonora di questo viaggio.

Dopo tre minuti di auto, ringrazio anche la parte di me che ha letto come un segnale dell’Universo quell’occhio solare del giorno prima, grazie al quale mi sono fermata a cercare un ostello. Dopo tre minuti di auto è infatti iniziata la salita e in men che non si dica, mi sono ritrovata sull’altopiano. Un mare di neve candida. Non c’erano auto. L’orizzonte piatto veniva rotto da colline lontane che, dal mio punto di vista erano colline, ma da una visione esterna erano la cima di una montagna. E la sensazione di stare sul tetto del mondo ce l’hai nonostante la vista ti dica che sei su una pianura sconfinata. Tutto attorno è solo neve e canto di anatre che in coppia volano.
Potresti nascere lassù e non sapere mai che esiste il mare, che esistono le montagne, che quella su cui ti trovi è una sorta di montagna. Ed è una sensazione di spaesamento magnifica.


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A un certo punto, da una collinetta all’orizzonte, vedo spuntare una nuvola in verticale. Non può essere. E’ vapore. Mioddio è un vulcano. Rallento. Fotografo, ma dalla foto non si capisce. Faccio altra strada e ne vedo un altro. Che ansia. Mi chiedo se vengano monitorati con costanza. Qui non passa mai nessuno. Sull’altopiano islandese un tempo la NASA aveva una stazione per le sue esercitazioni. Immagino che il motivo della sua dismissione sia legato alla difficoltà di trovare ogni volta la strada in quella distesa di neve. Dopo un’oretta e qualcosa inizia la discesa. Vedo un vulcano senza neve sopra e con dei gyser fumanti addosso. Non ho tempo per fermarmi.

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Arrivo ad Husavik e all’orizzonte il cielo è molto nero. Ho scelto proprio Husavik in quanto è stato un consiglio di Ambra, la mia amica appassionata di balene nonché la mia amica che è stata in Islanda. Quella che il giorno in cui ho comprato il volo mi ha fatto un’ora di training su cosa vedere assolutamente. Ho cercato chi mi aveva consigliato, ma la mia ricerca non è andata a buon fine. Scelgo quindi un giro in barca che come motto ha Safety First. Alla biglietteria insieme al biglietto mi forniscono uno sciroppo per il mal di mare. Lo prendo molto volentieri e sorrido al pensiero di quel gesto, così spontaneo e senza alcuna domanda aggiuntiva legata a possibili allergie agli ingredienti.

Salgo sull’imbarcazione. Si chiama Faldur. Il mare era mosso. In lontananza sento uno scambio tra la nostra guida – un ragazzo dalla faccia molto rassicurante – e il capitano. Il primo urla “Sei pronto?” e il capitano risponde “Sono sempre pronto!”. Ecco. Questo scambio alla Gigi e Andrea mi è suonato come un livido campanello d’allarme. Le ginocchia hanno iniziato a tremare. I due salgono e ci dicono di indossare la tutta imbottita, quella da sci e in un attimo sembriamo una spedizione per il Polo Nord. Il capitano Achab vede che la ragazza spagnola seduta di fianco a me non indossa i guanti e le dice che stiamo andando verso il Circolo Polare e non alle Canarie. Lei non ride. Lui ripete la battuta. Lei sorride a malapena e chiede alla guida un paio di guanti in prestito. Io indosso i miei guanti in finta-pelle nera da serial killer. E’ già un miracolo se mi sono ricordata di metterli in valigia. E’ già un miracolo se hanno accettato di venire in coordinato con quell’orrenda giacca da neve azzurra con cui giro in Islanda. Ma torniamo al nostro equipaggio. Siamo 9 turisti, una guida, un capitano e una che forse è la fotografa. Sediamo al centro dell’imbarcazione, su una panchina con in mezzo il posto per gli zaini. Si parte. Il mare è davvero molto mosso. La guida ci mostra come indossare i giubbini di salvataggio riposti in un luogo impossibile da raggiungere in caso di emergenza. Molto bene!

gentle giant


Trascorrono cinque minuti. Io inizio a pentirmi della scelta. Trascorrono dieci minuti. Io sono sconvolta dalla disinvoltura con cui la nostra guida annuncia che le previsioni del tempo siano in peggioramento, ma nessuna decisione di rientro viene presa. Trascorrono quindici minuti. Non me ne frega più nulla di vedere le balene. Il vento è forte e io sono terrorizzata dalle onde di un metro e mezzo che fanno oscillare la barca come un’altalena. Trascorrono venti minuti. La guida continua a raccontarci cose sulle balene e sull’avifauna marina e io vorrei urlare una parolaccia con cui pretendere di tornare in porto. Le onde si fanno ancora più alte e irregolari. Riesco solo a dire “Oddio!” ad ogni onda. Mi stringo forte alla panchina. La ragazza spagnola seduta due posti più in là mi prende la mano per tranquillizzarmi e vedo i suoi occhi pieni di paura. Perde l’equilibrio e mette un piede sul corrimano di Faldur e mi accorgo che siamo quasi totalmente piegati sul fianco.

tempesta perfetta

Avvistano la prima balena e come reazione ho la rabbia. Come potrà fregarmene delle balene in un momento come questo, quando non so nemmeno se riusciremo a tornare vivi in porto? Riesco a malapena ad estrarre il telefono per fare una foto. La Nikon è sotto la sportina waterproof e non provo nemmeno ad estrarla.
Le balene sono davvero immense. Mi spiace non aver dedicato loro pensieri azzurri e di stupore, ma ero veramente terrorizzata.
Quando una balena viene avvistata in un punto, la barca si gira nella sua direzione, avendola sempre a ore 12. Questo però comporta che la barca si esponga a pesanti oscillazioni e al pericolo di ribaltamento.

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Mi sposto a prua con i due ragazzi spagnoli. Da un lato è una pessima scelta: siamo esposti alle intemperie. Secchiate d’acqua salata. Vento gelido. Freddo polare. In quel momento scopro che quella tuta da sci non è affatto impermeabile. Ho i pantaloni e pure le mutande bagnate. L’odio per il capitano Achab cresce inarrestabile. I guanti sono fradici e le dita inizio a non sentirle più. Mi rendo conto che i giubbini di salvataggio sono utili come una fialetta d’acqua nel deserto. Chiaramente in caso di caduta in acqua è l’assideramento la causa più rapida di morte. Molto bene!

Torno a sedermi su quelle panchine. Da 6 sono rimasti in 2. Gli altri? Guardo in mare e guardo la guida, nulla di strano. Vado in poppa a chiedere alla guida un paio di guanti di ricambio. Vedo lì seduto il resto dell’equipaggio con la morte in faccia. Uno ha un biscotto vicino al piede. Bagnato dagli schizzi e dall’acqua che entra. Un altro biscotto sulla gamba. Uno sul braccio. Guardandolo bene, mi rendo conto che si era letteralmente vomitato addosso. Guardo gli altri e loro sono riusciti almeno a farlo in mare. Nessuno di loro però mostrava solidarietà ai miei “oddio!” iniziali. Torno sulla mia panchina con i miei nuovi guanti impermeabili. Gli schizzi arrivano a secchiate. Abbasso la testa tra le braccia e inizio a fissare un punto pensando a mia mamma che la notte mi aveva sognata bambina e in pericolo. Mi maledico. La guida arriva offrendo dei k-way per la pioggia, io gli rispondo che sono già fradicia. Mantengo la mia postura zen. Il cappello a orsetto pure, nonostante fosse fradicio pure lui. Dopo cinque minuti torna tristissimo dicendo che parecchia gente stava male, che il tempo era ancora in peggioramento e che la decisione era quella di rientrare. A me nemmeno lo ha detto. Già sapeva la mia posizione circa l’argomento.

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Rientriamo dopo 2 ore di navigazione anzichè 3. Ci rendiamo conto cosa sono 2 ore di mare in tempesta sul circolo polare artico? Ecco. Credo di aver perso cinque anni di vita in quel mare. Almeno spero di averli regalati a una di quelle balene.
All’arrivo in porto ci offrino della cioccolata calda e ciambelline. Che coraggio! In tre si sono pure fermati, di cui uno era il compagno del ragazzo dei “biscotti”. Che stomaco!

Appena mettiamo piede a terra inizia a nevicare! Molto bene! Corro verso la macchina, prendo il trolley e mi infilo nel bagno dell’agenzia. Mi tolgo i pantaloni, mi asciugo i piedi e con il phon cerco di riscaldarmi le gambe assiderate.

Sono le 16. Salgo in macchina prima che la neve si intensifichi e procedo in direzione Akureyri. Il viaggio è tranquillo e improvvisamente mi scende tutta la tensione accumulata. Un sonno improvviso mi pesa sugli occhi e poco prima di arrivare in città devo fermarmi in una piazzola di sosta per dormire un po’. Dopo una mezzora mi sveglio e riparto. Uno stormo di gabbiani è il comitato di benvenuto di Akureyri.


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Arrivata in città mi prendo un caffè e ceno direttamente con del sushi in un posticino gestito da Islandesi. Mangiare il salmone qui è un’esperienza mistica.
Mi trovo un ostello e passo il tempo prima di dormire ad asciugare i capelli all’orsetto e a raccontargli delle favole a lieto fine sul mare calmo, le balene e gli orsetti gentili.

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