Non è per sempre (Islanda 3° giorno)

“Ma mi avevi promesso che sarebbe stato per sempre. Mi avevano assicurato che per due come noi si sarebbe mantenuto tutto intatto. Anzi, perenne. Io e te. Tutti lo dicevano che sarebbe stato impossibile scioglierci. Eravamo noi due. Identici agli altri ma appesi l’uno all’altro. E perché ora vai via?”
“Non lo so. Mi dispiace. Ma mi si è rotto qualcosa. Lo sento dentro. Come se una corrente mi stesse portando altrove, anche se ancora non capisco dove, ma non posso fare a meno di seguirla. Addio”.
Questo è il racconto di come ho percorso il sud dell’Islanda per arrivare alla Laguna Glaciale di Jökulsarlon, dove gli iceberg si staccano dal ghiacciaio e percorrrono l’ultimo tratto di vita prima di sciogliersi a contatto con le acque dell’Atlantico.

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La Lonely Planet suggerisce un giro orario dell’Islanda, ma lo fa senza avanzare una motivazione; così io, per evitare il più possibile i turisti, ho imboccato il ring in senso antiorario.
Dopo la giornata incredibile di ieri, oggi mi aspettavo moltissime ore di viaggio e meno emozioni. In mente, avevo l’attraversamento di tutta la costa meridionale. Ok, sarebbero state solo 5 ore di viaggio, diranno alcuni. Ma 5 ore in mezzo al nulla e senza poter superare i 90 Km/h, vengono percepite dal nostro corpo come un tempo e uno spazio dilatati. Ma andiamo con ordine…


Faccio colazione e mi rendo conto dei tanti dettagli che caratterizzano il mio ostello. Era in precedenza una scuola elementare e i proprietari hanno deciso di mantenerne gli arredi. Ad esempio, il portachiavi della mia stanza è infatti un gioco appartenenuto alla scuola – chiaramente “io e il mio cane” – mentre il tavolo su cui venivano disposti i cibi della colazione era la cattedra. Cartine del corpo umano e lavagne erano sparse per l’ostello.

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Prima di salutarci e ormai sull’uscio, la proprietaria dell’ostello mi mostra i suoi due importanti vicini di casa: il signor Eyjafjallajökull e il signor Hekla. Il primo è il vulcano che nel 2010 con la sua eruzione bloccò per un mese il traffico aereo europeo, mentre il secondo è considerato il più potente vulcano in attività dell’Islanda. Mi racconta un paio di aneddoti sul 2010 e me ne vado con l’ansia nel bagagliaio, percorrendo svariati Km di strada con davanti a me Eyjafjallajökull (a destra) e Hekla (a sinistra, caratterizzato dalla forma piramidale).

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La prima tappa è Seljalandfoss e si tratta di una cascata alta 60 metri. Meravigliosa! Getto l’ansia in un cassonetto e vado nel backstage della cascata in cerca di tesori. Non trovo nulla ma in compenso testo la tenuta del mio sofisticato sistema di impermealizzazione della Nikon: una sportina di plastica. Orgoglio e scene di Flashdance che si alternano.

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Mi rimetto in strada. Mi sento forte. Non vedo più il vulcano da un po’. Mi sento meglio. Mi volto a sinistra e lui mi stava fissando negli occhi. Accosto. Scendo. Anzi non scendo. Non mi fa paura sapere che è un vulcano attivo ed è vicino a me. Mi fa paura vedere come tutta quella calotta glaciale lo renda innocuo alla vista. Un lupo travestito d’agnello. Me ne vado sgommando.

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Dopo nemmeno un’ora mi fermo ad un’altra cascata. Anche questa un tuffo di 60 metri. Non mi aspetto emozioni, saranno tutte uguali. E invece no.
Questa è Skógafoss e ha una portata d’acqua maggiore. Ma non solo. Avvicinandomi sento il vento alzarsi e con lui le fate, tutti lì a darmi il benvenuto. Il vento, le fate e Iridella.

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Percorro nemmeno quaranta minuti quando faccio una deviazione verso Dyrhólaey, i faraglioni islandesi. Belli ma molto più bella è la strada per raggiungerli.

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Da quel momento alle due ore successive vivo in una dimensione surreale. Paesaggi vulcanici si alternano. Il delta del Skeidarársandur con la sua sabbia glaciale. A tratti mi sembra la Route 66 e a tratti la Patagonia. A tratti le lingue dei ghiacciai sembrano arrivare fino a me, a tratti la strada deserta sembra volermi disperdere. Nelle orecchie i Sigur Ros rendono tutto meno reale di quanto già non sembri. Incrocio cinque macchine in tutto o poco più.

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Sono le 19 e mi dirigo verso la Laguna Glaciale. Sono ancora in un tratto reso desertico dalla potenza vulcanica del Vatnajökull e mi chiedo se non sia uno scherzo quello che scrive la guida. E invece non è uno scherzo. Dopo una curva sulla sinistra, intravedo prima una lingua di ghiacciaio e poi l’incredibile. Parcheggio e davanti a me stanno proiettando un documentario sul Polo Nord. Mi aspetto di vedere Licia Colò da un momento all’altro. Davanti a me ci sono gli iceberg e alcuni di loro sono in movimento.
Ascolto in silenzio tutto quanto. Gli uccelli con il becco lungo si gettano in picchiata dentro l’acqua uscendo con in bocca i pesci. I gabbiani in lontananza sono l’unico suono familiare. Guardo ancora in acqua e vedo delle teste spuntare. Sembrano bambini e invece sono foche. Mioddio come mi sembra un documentario! Rimango lì un’oretta e poi vado dall’altra parte della foce. 

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È quasi il tramonto e io cammino lungo la Laguna Ghiacciata. A quell’ora di turisti ce ne sono pochi. Chi è rimasto ha una reflex fissata su un cavalletto e punta contro un iceberg in attesa di riprenderne il crollo. Io ho la mia Nikon e guardo soprattutto le foche. Le osservo pescare in coppia, o forse giocano. Sono diffidenti e questo le protegge dai turisti scemi e io mi sento un po’ più tranquilla. C’è una pace incredibile seppur gli uccelli emettano grida di battaglia.
A un certo punto però una foca rompe l’incanto e inizia a fare i gargarismi. Sì, proprio quelli. Come se, andati via i turisti, spente le luci, possa smettere pure lei di recitare la parte della foca della laguna. Un’altra foca si avvicina e oltre ai gargarismi inizia a tirare degli schiaffi sulla superficie dell’acqua con la coda. Io esplodo in una risata e non riesco a fermarmi.

Le nuvole si colorano, temo che il tramonto su quella Laguna dove nulla è come sembra possa spezzarmi il cuore. Prima di andarmene mi fermo ancora un po’ con le foche e immagino dei dialoghi tra gli iceberg, quando all’improvviso una betoniera scarica qualcosa in acqua facendo un rumore assurdo. Ah no. Non era una betoniera. Era la fine di un grande amore.

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